La legge 225 del 1992 individua, attraverso i piani della Protezione Civile, le azioni da attuare per fronteggiare le emergenze idrogeologiche nel nostro paese. Atti che si muovono lungo tre direttrici fondamentali: la sistemazione idrogeologica ed idraulica del territorio ( prevenzione), la regolamentazione e l’utilizzo delle aree inondabili (gestione) e i dispositivi e le azioni da mettere in campo in caso di allarme, con la gestione dei piani evacuazione delle popolazioni delle aree a rischio (emergenza). Il legislatore nel corso degli ultimi 20 anni, trovatosi a rincorrere un’emergenza dopo l’altra, ha diramato una serie di leggi obiettivo attraverso le quali ha messo a disposizione delle zone colpite da inondazioni e alluvioni fondi pubblici per finanziare gli interventi straordinari necessari per la ricostruzione dei territori devastati. Per l’alluvione del Piemonte del ’94 con la legge 22 del ’95 fu individuato il Piano stralcio 45 per la realizzazioni di interventi idraulici necessari per risolvere i problemi relativi all’assetto idrogeologico della zona del Po. Di piani simili nel corso dei decenni ne sono stati finanziati tanti. Per l’emergenza di Genova e della Liguria, restando ai nostri giorni – il governo ha stanziato 65 milioni di euro.
In totale solo negli ultimi due anni, per fronteggiare gli eventi straordinari che hanno colpito nell’ottobre del 2009 Giampilieri e Scaletta Zanclea a Messina fino a gli ultimi eventi in Lunigiana, lo stato ha messo a disposizione 640 milioni di euro. Una cifra enorme per gestire un’emergenza che oramai è diventata cronica. Un paradosso se si considera che, a seguito dei tagli delle varie manovre finanziarie, i fondi per il finanziamento del Piano Straordinario di Prevenzione del Ministero dell’Ambiente si sono via via assottigliati sempre di più. Attualmente ammonta a 2,5 miliardi di euro,tra fondi statali e regionali. Un investimento quanto mai urgente e necessario in un paese come l’Italia dove ogni anno vanno perduti – secondo le stime ufficiali di Legambiente – 500 chilometri quadrati di superficie naturale che da agricola diventa abitativa con la costruzione di abitazioni e infrastrutture.
Cifre che nulla valgono dinanzi al sacrificio di vite umane e alla disperazione di centinaia di famiglie che hanno perso tutto quello che avevano costruito con il lavoro di una vita, dalla sera alla mattina. Interventi necessari tanto più se si entra nell’ottica – come denunciato nel nuovo dossier di Legambiente – per cui questi fenomeni non sono da considerarsi più straordinari, ma la normalità a causa dei cambiamenti climatici in atto. Per questo occorre avviare un piano di prevenzione complessivo che preveda operazioni di messa in sicurezza delle zone a rischio, la delocalizzazione degli edifici situati nelle aree ‘rosse’, la manutenzione del territorio e l’educazione dei cittadini.